Il nuovo - perché Ruggero Marino già ci è noto per le sue ricerche e conseguenti ipotesi - volume su Cristoforo Colombo riprende e cerca di svelare tutti i dubbi che il Marino ci aveva fatto sorgere fin dal 1991 con il suo Papa tradito. Il tradimento, che anche qui ritorna nel sottotitolo “La storia tradita e i veri retroscena della scoperta dell’America”, sta in quei 500 anni trascorsi che hanno fissato alcuni paletti che, veri o falsi, sono oggi ben difficili da demolire. In sostanza: il 12 ottobre del 1492 Colombo sbarcava sì nelle Indie, ma la storiella che avrebbe con quel primo viaggio scoperto per caso il nuovo mondo (anzi Colombo, secondo i luoghi comuni, morirà senza sapere dov’era arrivato e solo nell’ultimo viaggio, scoprendo le foci dell’Orinoco, si sarebbe reso conto di essere al cospetto di un vero e proprio continente).
Eppure ben si sa che almeno le coste orientali dell’America erano state più volte frequentate da europei e, forse, dallo stesso Colombo. Non solo, ma il sospetto che le Americhe fossero note fin dall’antichità (da dove gli egizi avrebbero importato grandi quantità di oro, rame, argento?) c’è, eccome. Ma perché ci si ostina a pensare che Colombo avesse scoperto il nuovo continente solo perché intendeva raggiungere (per una via più breve?) il Katai, cioè la Cina di Marco Polo. E il misterioso Cipango, che il Giappone non è, come si vuol far credere. E cosa sapeva Polo del Cipango? Forse molto più di quanto possiamo supporre a una attenta lettura anche del Milione.
Ruggero Marino ci spiega l’arcano.

Ma mentre dedica sedici anni a una ricerca intensa, si attira solo critiche da parte degli accademici che ufficializzano la storia.
Può anche darsi che alcune delle ipotesi e delle conclusioni del Marino siano o suònino azzardate, per carità, ma questo non autorizza a gettare tutta la sua ricerca nella pattumiera, come vorrebbe qualcuno, per difendere a spada tratta lo status quo dei libri di storia canonici.
Spiace che un libro come questo non entri nelle hit parade dei più venduti. Lasciamo pur da parte un confronto con il Codice da Vinci, forse attraente sotto il profilo della lettura facile sotto l’ombrellone, ma privo di qualsiasi interesse storico; ma che il libro su Colombo non entri neppure tra i primi venti della saggistica dispiace. Dispiace perché è un saggio che si legge volentieri (forse non sotto l’ombrellone) anche se richiede un certo impegno se si vuol seguire il complesso itinerario che pur concentrandosi nella seconda parte del XV secolo, non manca di nutriti riferimenti alla complicata storia medioevale, bizantina, ottomana e islamica.
Chi lo critica, lo attacca con la meticolosità dello studioso questo è vero, ma Ruggero Marino dimostra con la ricca messe di note (ben 68 pagine su 270 di puro testo descrittivo) di aver scandagliato tutto il possibile. Forse qualche accademico, che pur può contare su zelanti studenti da sguinzagliare per le biblioteche, prova invidia per chi è riuscito da solo a penetrare così nel profondo della ricerca andando a scovare manoscritti e documenti che forse uno storico ortodosso neppure avrebbe pensato di prendere in considerazione. Non ci riferiamo a quella che il professor Cardini definisce letteratura trash, citando autori tipo Baigent o Hancock, che pure Marino cita con assoluta moderazione, ma piuttosto a manoscritti d’epoca, a iscrizioni tombali, a documenti gelosamente conservati in Vaticano. Persino andando a scovare iscrizioni, bassorilievi e affreschi significativi in chiese e palazzi rinascimentali che in qualche modo si collegano a questa intricata e incredibile storia. Intricata, come la politica rinascimentale, e del Vaticano. E incredibile. Ma perché poi, se in fondo non fa che dimostrare ciò che in parte si sa o si suppone? Incredibile perché un papa del Quattrocento avrebbe avuto dei figli? Questo non ci fa meraviglia, tanto più che il papa in questione, Innocenzo VIII, al secolo Giovanni Battista Cybo, ebbe una lunga vita prima da laico e solo in tarda età da religioso. Incredibile perché quel Cybo, genovese sí ma di origine greco-bizantina e forse ebraica, può creare qualche problema? Ma la Chiesa romana non era a quel tempo istituzione molto attenta a simili piccolezze. Così Marino ricostruisce la storia di questa famiglia certamente di provenienza dalle isole egee dove i genovesi avevano colonie, dove si incrociavano le civiltà. Ricostruisce la storia di un periodo assai delicato in cui le grandi potenze si scontravano, come oggi, per il predominio delle risorse irrinunciabili per la ricchezza e il potere. Oggi il petrolio, allora l’oro e le spezie. L’oro forse piú delle spezie, ma queste erano l’esca per chi voleva accorciare le vie per raggiungerne i luoghi di provenienza. E certo ha ragione Marino quando afferma che chi scopriva le strade per ottenere un vantaggioso commercio magari in luoghi non conosciuti, teneva per sé queste preziose conoscenze.
In sostanza, Marino non fa che riposizionare Innocenzo VIII in un ruolo che egli era stato tolto dalla Storia. Un papa, che all’epoca rappresentava il massimo potere sulla Terra, che regna dal 1485 al 1492, che era consuocero di Lorenzo Magnifico, secondo la Storia ufficiale, non avrebbe nulla a che fare con i viaggi di Colombo. Questo, dimostra Marino, secondo una Storia riscritta, guarda caso, dal papa successivo, Alessandro VI, un Borgia (Rodrigo) e per giunta spagnolo (padre del ben noto Cesare Borgia).
E allora chi era veramente Colombo, dal nome e cognome assai improbabili se non con il senno di poi? Perché un semplice figlio di lanaiolo dell’entroterra ligure, che tuttavia aveva studiato all’Università, conosceva le lingue, frequentava principi, cardinali e re, si chiamava proprio Cristoforo, cioè portatore di Cristo? E perché Colombo che, come sappiamo, è il cognome dato ai trovatelli, perché portati dallo Spirito Santo? Sono domande cui Marino riesce a dare risposte che riteniamo soddisfacenti. Soddisfacenti, ma scomode. Ecco perché il libro è poco pubblicizzato, ecco perché a Marino non sono dedicate trasmissioni televisive e si preferisce dar credito a un Dan Brown. Eppure ci sarebbe materiale abbastanza per farne un buon film, e non la solita sbrodolata pseudo-storica che già abbiamo visto, ma un film che ci riconduca nei meandri di una società tra Medioevo e Rinascimento che forse non conosciamo ancora abbastanza bene. Del resto “non bisogna avere paura dei miti”, come disse il professor Loris J. Bononi a conclusione del “processo a Gutenberg” di Genova, quando fu sollevato il dubbio legittimo che la sua famosa Bibbia non fosse stata stampata con caratteri mobili, suscitando lo scandalo degli accademici. Se un mito è da demolire, demoliamolo e ricostruiamo la storia su fondamenta piú vere anche se per il momento non sono ancora abbastanza solide. Il tempo farà il resto.

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